• Aprile 2015 •

A volte quando qualcosa ci appassiona vogliamo rifarla, ma in questo caso si tratta di voler andare a fondo nella comprensione delle idee racchiuse nel libro in inglese che avevo letto, come avevo descritto nel mio passo Biocentrism, rileggendolo nella sua versione italiana Biocentrismo, ovviamente dello stesso Robert Lanza, per scoprire dettagli persi celati dietro una lingua non mia. La cosa interessante, nell’osservare le mie sottolineature, sta nel fatto che quelle sul testo inglese non coincidono con quelle sul testo italiano. Questo a evidenziare il fatto che la mente coglie aspetti diversi, dovendosi adattare a linguaggi diversi, ma a questo punto se questo avviene cambiando semplicemente la lingua di un testo, cosa succederà cambiando il nostro approccio alle cose? Continuiamo in questa metamorfosi, ripartendo dalla prima sottolineatura del testo, che riporta:

Come scrisse R.W. Emerson nel suo Esperienza, un saggio che si scagliava contro il positivismo superficiale della sua epoca, «Abbiamo imparato che noi vediamo non direttamente, ma mediatamente; e che non abbiamo nessun mezzo per correggere queste lenti distorte e colorate che noi siamo o anche di contare la somma dei loro errori. Forse queste lenti-soggetti hanno un potere creativo; forse non vi sono degli oggetti».

Non vediamo il mondo attraverso i nostri occhi, ma in qualche modo siamo noi stessi gli occhi, che non sanno cosa vedono, ma hanno questo potere creativo, almeno nella nostra mente, di generare la nostra percezione, ma

Nulla viene percepito se non le percezioni stesse, e non c’è nulla al di fuori della coscienza.

Questa affermazione, enucleata dal contesto, può essere alquanto criptica, ma rileggendo le pagine che la avvolgono, riemerge quello che l’autore voleva trasmettere: non esiste una realtà dentro la nostra mente e una esterna ad essa, ma esiste solo la coscienza, e questa coscienza che si estende davanti ai nostri occhi (che è anche la percezione della nostra mente) si estende anche a tutte le altre percezioni (non solo a quelle visive quindi). Se proseguiamo in questa direzione, in cui la nostra coscienza crea la realtà, cosa vi aspettate che avvenga riguardo le azioni che compiamo per viverla? Se prendiamo a prestito una citazione di Einstein, riportata nel libro di Lanza, troviamo:

Possiamo avere la volontà di agire, ma non avere la volontà di avere la volontà.

Ma cosa significa questa affermazione? Permettimi una breve digressione, sul fantastico tema di cui parleremo nel prossimo paragrafo, riportando oltre ai riferimenti delle mie sottolineature anche altri spunti in cui mi sono imbattuto mentre stavo scrivendo questo passo.

Il libero arbitrio

Per comprendere l’ultima citazione dobbiamo ricordare Benjamin Libet, pioniere delle ricerche sulla coscienza, che fece un semplice esperimento (almeno a parole, ma utilizzando ovviamente le dovute apparecchiature scientifiche): chiedeva al soggetto sottoposto al test di fare un gesto semplice, come ad esempio muovere un dito o premere un pulsante, e misurava il tempo che intercorreva da quando il cervello inviava lo stimolo motorio al dito a quando il soggetto ne sentiva l’intenzione. Il risultato controintuitivo dimostrava che l’attività cerebrale precedeva di circa mezzo secondo la percezione del soggetto di compiere l’azione. Come riporta anche Lanza

Simili esperimenti dimostrano che il cervello assume le sue decisioni a un livello subconscio, e che le persone si accorgono solo dopo che «loro» hanno preso una decisione coscientemente.

Tali risultati hanno portato a un forte dibattito sul libero arbitrio, ma cosa possiamo ipotizzare in base al processo appena descritto?

Siamo realmente liberi di apprezzare lo svolgimento della vita, inclusa la nostra, sgombrandola dalla perenne volontà di controllo, spesso fautrice di senso di colpa, e dal bisogno ossessivo di non sbagliare mai. Rilassiamoci, dunque, perché compiremo quelle azioni comunque.

Nei giorni in cui scrivevo questo passo, ho ripreso degli elementi salvati riguardo una discussione che non avevo ancora avuto tempo di leggere. Questa discussione sul libero arbitrio rimandava ad un dibattito avvenuto nel Gennaio 2014, sempre sullo stesso tema. In aggiunta faceva riferimento ad un saggio di Carlo Rovelli (nei miei passi incontreremo anche dei suoi libri) intitolato “Libero arbitrio e determinismo”, pubblicato su MicroMega del Febbraio 2015. E questa tu non la consideri Serendipità? Di seguito riporto la fusione di questi elementi, in un estratto che ti possa far intuire quanto sia ampio il tema.

Riprendo quello che afferma Alessandro Fanchin (che ringrazio per gli spunti interessanti) nel dibattito che ho letto:

Noi siamo il movimento degli elettroni e degli ioni nel cervello (più o meno), anche perché il cervello riscrive il passato recentissimo per rimettere in ordine logico le sensazioni che gli arrivano in tempi nettamente diversi (come ad esempio lo stimolo tattile rispetto allo stimolo visivo). È la nostra coscienza che decide, in base a regole e idee, paragonabili a delle routine software. Anche un computer decide in base a regole e algoritmi. In entrambi i casi è assolutamente ovvio che le regole e le decisioni prese sono evidenziate da elettroni che si muovono o da ioni nel cervello. La coscienza è probabilmente la routine più importante del nostro cervello; quella che ci permette di imparare dall’esperienza e di programmare il futuro per noi e per la nostra specie. Tutti gli animali superiori ce l’hanno, a vari livelli. Lo scambio di ioni tra neuroni avviene in base a regole scritte nelle routine della coscienza e della non-coscienza. Un computer decide in base a routine algoritmiche, un cervello in base a routine in parallelo, forse non algoritmiche, che mettono insieme sensazioni, idee, eccetera. La coscienza dà il ritmo, mentre le particelle subatomiche sono costrette a fare quello che devono quando gli ioni interagiscono. In questo senso le particelle subatomiche per la coscienza potrebbero non esistere.

Concludo questa digressione con la conclusione del saggio di Rovelli, inserendo in questo passo (insieme alla precedente) l’ultima citazione che non appartiene alle mie sottolineature, ma che credo meriti di essere riportata prima di ritornare al tema centrale:

Il significato del libero arbitrio che assumiamo è che il comportamento non è univocamente determinato né da vincoli esterni, né da quanto riusciamo a conoscere dei nostri stessi processi decisionali. Ogni pretesa che esista un “arbitrio” più “libero” di questo è sbagliata, e non ha alcun motivo di esistere, perché questo significato ristretto di “libero arbitrio” basta largamente a giustificare la nostra sensazione soggettiva di libertà. Tutto questo non ha nulla a che vedere con questioni di carattere morale, o legale. La nostra idea di essere liberi è corretta, ma è solo un modo di definire la nostra ignoranza sul nostro stesso funzionamento.

Dall’osservazione alla creazione

Riprendiamo il tema principale, partendo da una citazione del fisico premio Nobel John Wheeler che Lanza cita nel suo libro:

Nessun fenomeno è un fenomeno reale finché non è un fenomeno osservato.

Questo mi riporta a uno dei quesiti che l’autore pone in uno dei primi capitoli del libro: “Se un albero cade in una foresta, e nessuno è presente, fa rumore comunque?” Anche in questo caso non dobbiamo mai prendere per corretta la prima risposta che affiora nei nostri pensieri, per non perdere l’occasione di ampliare il nostro modo d’essere. Riprendendo l’ultima sottolineatura, non pensiamo quindi subito a oggetti macroscopici (che ovviamente sono quelli con cui abbiamo a che fare ogni giorno), ma pensiamo a particelle elementari, come un fotone o un elettrone. Se pensassimo al treno che dobbiamo andare a prendere in stazione ad un certo orario, ragionevolmente possiamo ipotizzare che il treno esista anche quando non siamo lì ad osservarlo, ma questo avviene perché

quando l’oggetto in esame diventa più grande la sua lunghezza d’onda diminuisce. Quando entriamo nel regno del macroscopico, quindi, le onde sono troppo ravvicinate tra loro per essere notate o misurate, ma continuano comunque a esistere.

Se invece consideriamo particelle discrete (che per il dualismo onda-particella possono essere descritte anche come onde), dobbiamo considerare il fatto che possono essere descritte come una nuvola di probabilità relativamente alla loro posizione (quella che viene chiamata funzione d’onda), che solo al momento dell’osservazione collassa in una particella in un punto nello spazio e quindi passa da uno stato “probabilistico” ad uno “reale”. È quindi la nostra osservazione che “crea” la realtà? Riscoprendo le mie sottolineature, ritrovo l’iperbole dell’affermazione appena fatta, che afferma:

L’universo è semplicemente l’estensione della logica spazio-temporale del sé.

Questa è la parte finale del quinto principio del biocentrismo. Riprenderemo alla fine del passo i sette principi della teoria di Lanza, ma questa anticipazione mi permette di farvi intravedere la base delle sue affermazioni, secondo cui ogni organismo biologico è una sorta di creatore della realtà che lo circonda. Creatore di tutti gli aspetti della realtà, compreso il tempo, come accennavo nel passo relativo alla versione inglese del testo Biocentrism. Sul tempo, nel testo italiano ritrovo invece questa sottolineatura

Gli uomini sfruttano la ritmicità di alcuni fenomeni specifici per conteggiare altri avvenimenti. Ma sono solo eventi, accadimenti, non devono essere confusi col tempo.

che in questa specifica affermazione ci porta a considerare il fatto che misurare il tempo non significa che questo esista. Infatti tutto ha più senso se ci accorgiamo che utilizziamo oggetti che dettano un ritmo (gli orologi per esempio), per tenere il ritmo di altri eventi (come ad esempio la rotazione terrestre). Questo però non definisce il tempo come concetto a sé stante, ma piuttosto come il risultato del confronto fra eventi differenti.

Proseguendo nelle mie sottolineature, ritorniamo al centro del filone conduttore del testo, dove Lanza dice:

Sono i neuroni, non gli atomi, a costituire le fondamenta per il nostro mondo determinato dall’osservatore.

ed estende questo concetto di mente creatrice ben oltre i confini del singolo individuo, riportando un’altra citazione di Emerson:

C’è un’unica mente comune a tutti gli individui. Ogni uomo è in comunicazione con essa e con tutto di essa.

Credo che ora sia giunto il momento di enunciare i sette principi del Biocentrismo, per commentarne alcuni e approfondire maggiormente questa teoria che finora hai solo potuto intuire dai commenti alle sottolineature riscoperte sul testo.

PRIMO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Ciò che noi percepiamo come realtà è un processo che coinvolge la nostra coscienza.

SECONDO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Le nostre percezioni interne ed esterne sono intrecciate. Sono due facce della stessa medaglia e non possono essere separate.

TERZO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Il comportamento delle particelle subatomiche – e per estensione di tutte le particelle e di tutti i corpi – è indissolubilmente connesso alla presenza di un osservatore. Senza la presenza di un osservatore cosciente, esiste solamente uno stato indeterminato di onde di probabilità.

QUARTO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Senza la coscienza, la cosiddetta «materia» rimane in uno stato indeterminato di probabilità. Ogni universo precedente a un atto cosciente è esistito solo in uno stato probabilistico.

Il quarto principio per me è molto interessante, soprattutto nell’ultima frase. Mi fa immaginare quale sia stato il primo atto cosciente, sia in termini di primo organismo biologico che l’ha compiuto, sia pensando a me stesso, dove questo istante si perde nella mia mente e, pur essendo riposto in qualche suo cassetto, non riuscirò a ritrovare.

QUINTO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO La reale struttura dell’universo è spiegabile solamente attraverso il biocentrismo. L’universo è finemente accordato per la vita, e tutto torna perché è la vita che crea l’universo, non il contrario. L’universo è semplicemente l’estensione della logica spazio-temporale del sé.

Qui, in tutta sincerità, mi sembra che ci sia un po’ troppa autoreferenzialità dell’autore nell’affermare che tutto è spiegabile solo dalla sua teoria, ma tralasciando questo aspetto salta all’occhio una cosa interessante. Diverse costanti fisiche fondamentali che conosciamo, se avessero un valore diverso anche di pochissimo, non permetterebbero la comparsa della vita come la conosciamo. Affermare quindi che è la vita che ha creato un universo compatibile alla sua esistenza ribalta il punto di vista, se non altro rendendolo sicuramente coerente con l’asserto principale del Biocentrismo.

SESTO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Il tempo non possiede una vera e propria esistenza al di fuori della percezione sensoriale animale. È il processo attraverso cui percepiamo i cambiamenti nell’universo.

Da quando ho letto questo libro, ho iniziato a mettere in discussione l’esistenza del tempo. Sono partito approfondendo l’esperimento della doppia fenditura, che ha cominciato ad insinuare in me il dubbio (in realtà ho scoperto poi che inizialmente mi basavo su ragionamenti errati, ma la conclusione finale non è cambiata) che poi è diventata una certezza: il tempo non esiste, o meglio esiste solo nella nostra percezione. Se questo vi sembra impossibile, provate a leggere l’ultimo principio.

SETTIMO PRINCIPIO DEL BIOCENTRISMO Lo spazio, come il tempo, non è un oggetto o una cosa. Lo spazio è un’altra modalità cognitiva animale e non possiede una realtà indipendente. Ci portiamo dietro spazio e tempo come fanno le tartarughe con il loro carapace. Pertanto, non esiste alcuna matrice autoesistente assoluta in cui gli eventi si verificano indipendentemente dalla vita.

Anche lo spazio come lo intendiamo non esiste! Devo essere sincero: seppur sia difficile da accettare, considerare inesistente il tempo è divenuto un mio nuovo modo di pensare, ma l’inesistenza dello spazio non sono ancora riuscito a farlo mio come concetto. Questo probabilmente è dovuto al fatto che il tempo può facilmente essere considerato relativo (un’ora di svago non è paragonabile a un’ora in fila dal dottore) e quindi in qualche modo una nostra percezione, ma non riesco a considerare allo stesso modo lo spazio. Forse proprio perché questa “modalità cognitiva”, come la chiama Lanza, è radicata nelle nostre menti. L’unico modo di allontanarsi dai ragionamenti indotti dalla mente, è quello di porsi in uno stato di non-mente, ma questo sarà argomento di un altro passo.

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