• Settembre 2017 •
Ormai avrai capito che titoli come Il codice della mente straordinaria a me ispirano e quindi anche quest’opera di Vishen Lakhiani non ha fatto eccezione. La prima sottolineatura afferma che
la felicità è un’abilità, e come tale possiamo apprenderla
e posso dire che sono assolutamente d’accordo, però non è stato sempre così. Per anni ho creduto che la felicità andasse ricercata e, una volta trovata, mantenuta con sé in qualche modo, come se si potesse conservare. Ho capito solo successivamente che la felicità è un modo d’essere. Non si trova al di fuori di noi, come del resto tutto quanto, ma è la nostra predisposizione all’osservazione del mondo in un certo modo. Ecco quindi che, come dice l’autore, questa abilità si può apprendere e, soprattutto, si può allenare per renderla la nostra normalità.
A volte l’etimologia di altre lingue ci può aiutare a comprendere il significato di una parola da un punto di vista diverso, non influenzato dalla nostra cultura. In questo caso, ad esempio,
nel buddismo, il termine per indicare la felicità è Sukka. La traduzione di questa parola è «benessere che scaturisce da una mente serena, dalla pienezza dell’essere, dalla realizzazione interiore, dal risveglio dei propri talenti».
Questa definizione sottolinea che la felicità non è al di fuori di noi, anche perché se così fosse vorrebbe dire che per ottenerla avremmo necessariamente bisogno di qualcuno/qualcosa esterno, e questo significherebbe inevitabilmente che, anche se l’ottenessimo, sarebbe impermanente. Quante volte abbiamo pensato che ottenendo quell’oggetto o legandoci a una persona avremmo raggiunto la felicità (e ci era anche parso fosse vero), ma poco dopo quella sensazione svaniva inesorabilmente? La buona notizia è che possiamo smettere di cercare all’esterno, ma le cose non si ottengono mai senza impegno, o meglio senza un’azione consapevole e focalizzata. Questo significa che dobbiamo pensare in maniera differente per ottenere risultati differenti nella nostra vita, e questo pensare non può essere solo conscio, altrimenti questo Davide si scontrerebbe con l’inconscio Golia, creato dagli strati accumulati durante tutta la vita. Ci saranno dei passi successivi in cui tratterò il tema della riprogrammazione dell’inconscio, ma per il momento comincia con lo smettere di guardare fuori dalla finestra, per ritornare ad osservare ciò che è sempre stato dentro casa tua.
La sottolineatura successiva riprende in qualche modo il concetto degli strati accumulati a cui ho appena accennato:
La macchina crea-significato che abbiamo nella testa attribuisce continuamente senso agli eventi che si verificano, in particolare quando riguardano persone da cui cerchiamo amore o attenzione.
Uno “strato” si crea quando, in maniera ripetuta, un’informazione si lega ad un’emozione, fissando il tutto nella nostra mente. All’inizio pensiamo coscientemente all’informazione, ma con la ripetizione e soprattutto con l’emozione (che mette in gioco anche la chimica del nostro corpo), l’informazione viene gestita automaticamente e noi non ci accorgiamo più della reazione che abbiamo. Tutto diventa automatico e quindi fuori dal nostro controllo, ma non è finita qui. Questo automatismo ci fa ricadere in una ripetizione continua dei nostri stati d’essere, creando una profezia autoavverante delle nostre convinzioni che, come abbiamo visto, da consce diventano inconsce.
Un insieme di queste convinzioni riguarda l’immagine di noi che vogliamo dare all’esterno. Per la sua definizione, derivante da tutti gli anni di vita passati, abbiamo speso e continuiamo a sprecare un sacco di energie per renderla consistente, ma una semplice domanda può farci riflettere.
Cosa sarebbe successo se avessi iniziato a credere di essere abbastanza e di non avere niente da dimostrare?
Questa domanda potrebbe spiazzarti, ma come tutte le buone domande non è importante la risposta, quanto il cambio di prospettiva che genera dentro di te, per permetterti di comprenderti meglio. Da sola, questa riflessione potrebbe far crollare buona parte degli strati che ti porti addosso, ma se non cominci in maniera critica e continua a cercare di comprenderti, questo momento sarà vano, perché
ciò a cui sappiamo di credere è molto meno di ciò a cui non sappiamo di credere.
Abbiamo molte credenze inconsce che ignoriamo, e queste nascono da ciò che il nostro essere crede di aver imparato dalle lezioni del passato, ma influenzano anche il nostro comportamento futuro, perché cercano, a seconda dei casi, di far accadere o di evitare degli eventi. Comunque sia,
è inutile indugiare sul passato e lasciare che vi definisca, o perdersi nell’inquietudine per il futuro. Nel momento presente siete nel campo del possibile.
Questo significa che nel continuo riproporsi dell’istante presente, e solo in quel momento, tutte le infinite possibilità sono presenti, e siamo noi che le facciamo divenire l’unica realtà di cui facciamo esperienza. Questa “creazione”, se fosse completamente conscia, ci porterebbe esattamente dove vogliamo, ma per quanto discusso prima, tutta la parte inconscia tende a ricreare continuamente la realtà che “abbiamo deciso” in base alle nostre credenze. Questi preconcetti spesso derivano dalle interazioni che abbiamo con gli altri, ma se vogliamo vederla in un altro modo, tutto questo è solo un’errata comprensione di alcuni aspetti che proiettiamo sugli altri, e che non riconosciamo per quello che sono, ossia dei tratti che non accettiamo di noi stessi. Prova a ragionare sulla prossima sottolineatura:
Ricordate che le persone ferite feriscono. Chi ferisce gli altri lo fa perché a qualche livello, in qualche momento, è stato a sua volta ferito.
Cos’è veramente che ci ferisce? Il comportamento di una persona, o più concretamente quel qualcosa che quella persona ha risvegliato in noi come esperienza negativa? Dovremmo capire che quel momento di sofferenza è un’occasione (che si riproporrà finché non sarà compresa), per riconoscere attraverso l’altro (lo specchio) l’errata credenza che ci porta a tale sofferenza. Queste errate credenze possono essere diverse per ognuno di noi, ma una di quelle si cui ho dovuto lavorare per farla svanire con la comprensione, riguarda il fatto che
darsi da fare per confutare il modello di realtà del non essere abbastanza ha un costo nascosto: dipendere da altri per una conferma.
Questo perché se basiamo il nostro “valore” in base ai traguardi raggiunti “certificati” dall’apprezzamento degli altri, appena questo cesserà, automaticamente la nostra autoconsiderazione ne risentirà. Per non cadere in questa trappola, l’unico modo è osservarsi in maniera distaccata, ma non con il fine di giudicarsi, quanto piuttosto di capire attraverso l’osservazione che non c’è bisogno di alcun giudizio. In questa trasmutazione, è bene essere consapevoli che il passaggio intermedio dallo stato iniziale di apprezzamento esterno a quello di consapevolezza dell’inutilità del giudizio, spesso passa per l’autoapprovazione dell’Ego. Con questo intendo che l’iniziale bisogno dell’approvazione degli altri non dev’essere sostituito da un compiacimento dell’Ego (un esempio classico è rimpiazzare un giudizio positivo degli altri con un pensiero del tipo “Io sono sicuramente stato all’altezza, sono gli altri che non l’hanno capito”). In questi termini infatti l’Ego è comunque esterno a noi, solo a un livello di vicinanza tale che spesso confondiamo con noi stessi. Nello stato intermedio che sto cercando di descrivere è molto facile creare un’interpretazione della realtà introducendo sovrasignificati a ciò che ci accade.
Quando create significato attorno alle azioni altrui o giudicate le persone che non vi danno ciò di cui avete bisogno, probabilmente state colmando un buco dentro di voi che quelle azioni o persone vi ricordano.
È paradossale come “aggiungere” significati è strettamente collegato al “riempire” una mancanza di comprensione, ma non c’è nulla da aggiungere o da comprendere, in quanto se rimuoviamo questo schema ripetitivo tutto ciò che rimane rappresenta il nostro Sé originario. Non pensare a un corpo, o a una mente, perché
la trascendenza è l’atto di andare oltre il mondo fisico per abbracciare quanto non può essere visto.
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