• Novembre 2016 •

Appena posati gli occhi sulla prima sottolineatura di questo passo, legato al testo Mindfulness relazionale di Gregory Kramer, mi sono subito messo a pensare (o a essere pensato?) perché ho riletto

I pensieri ci pensano

Tu che significato gli dai? Aspetta, non essere frettoloso.

Prima di rispondere inizia a farti qualche domanda. I pensieri sono tuoi? Da dove nascono? E se nei tuoi dialoghi interiori i pensieri sono quelli che “parlano”, chi è quello che “ascolta”? I tuoi pensieri ti cambiano? Se ti sei soffermato su almeno qualcuna di queste domande, sono sicuro che la prima risposta che volevi dare è cambiata, più sfumata, o forse la risposta è scomparsa momentaneamente perché c’è bisogno di qualche approfondimento personale. Su di una cosa su cui credo concordiamo, possiamo costruire un discorso: i nostri pensieri ci plasmano. Potremo anche andare oltre questa affermazione, ma ora è troppo presto, e prima di tutto dobbiamo prendere coscienza del suo significato. Troppo spesso ci muoviamo con il pilota automatico, lasciando tutto lo spazio ai nostri pensieri di “pensare” e quindi di “plasmare”, senza focalizzare la nostra attenzione su ciò che veramente e coscientemente vogliamo portare alla nostra consapevolezza.

Ma come si esce da questo stato costante di “guida con il pilota automatico”? Ci sono persone che, per loro sensibilità o ricerca interiore, osservano come si comportano, Inizialmente ci pensano a posteriori, per poi arrivare a farlo nel mentre delle proprie azioni, ma normalmente un individuo non segue questa via. Come distaccarsi quindi dal fare inconsapevole, per riprendere in mano le redini della nostra vita?

La sofferenza può condurre allo squilibrio oppure all’investigazione

Perché la sofferenza? Perché non la gioia? Mi sono spesso fatto questa domanda, e alla fine credo che la risposta sia data dal fatto che per fare emergere qualcosa da noi stessi ci vuole uno scossone, piuttosto che una carezza che ci fa desiderare di non perdere mai quella sensazione, che inevitabilmente se ne va. Quello scossone a me è arrivato poco dopo i trent’anni, come racconto all’interno di Colpito dal Fato, e ha generato la scintilla che tuttora alimenta il mio cambiamento, come ti sto raccontando attraverso i miei passi. Nel mio percorso, ho capito che ciò che apparentemente percepisco al di fuori di me è soltanto una proiezione di ciò che c’è all’interno, e l’esterno riflette degli elementi che, se osservati, permettono di comprenderci più a fondo, come descrivo nel passo Il Potere del Cervello Quantico.

L’esterno, seppur creato da noi, sembra influenzarci attraverso le nostre percezioni, ma come può accadere questo?

Non appena il mondo tocca i sensi, un sé viene spontaneamente a essere e sorgono desideri

Quando percepiamo qualcosa, il fatto che sia percepito lo pone al di fuori di noi, e questo a sua volta implica che noi ci consideriamo un’altra cosa rispetto a quel qualcosa. Sorge quindi un sé e un non-sé, perché la nostra mente vive in un mondo duale, da cui nascono i desideri verso quello che è esterno a noi. Nessuno ci insegna queste cose, lasciandoci in uno stato di ignoranza, per cui anche il Buddha si è espresso dicendo che:

è proprio l’ignoranza a generare costrutti come i ricordi, le idee, le emozioni, le tendenze personali e gli stati d’animo, e che questi costrutti a loro volta generano l’io. L’ignoranza è il non-conoscere, il non-discernere con cui abitiamo tali proliferazioni, confondendole con la realtà

Poco sopra mi chiedevo del perché la sofferenza e non la gioia può condurre all’investigazione, ma dopo questa introspezione, che ci fa meglio comprendere noi stessi, come possiamo eliminare la sofferenza? Ritrovo la risposta nella prossima sottolineatura:

E qual è, amici, la nobile verità della via che conduce alla cessazione del dolore? È appunto questo Nobile Ottuplice Sentiero, ossia: Retta Visione, Retta Intenzione, Retta Parola, Retta Azione, Retta Condotta di vita, Retto Sforzo, Retta Consapevolezza, Retta Calma concentrata.

Nel libro sicuramente l’autore riprendeva questi temi uno per uno, ma rileggendoli ora l’attenzione si posa sull’ultimo: la calma concentrata. Quando penso a questo concetto, la prima immagine che sorge nella mia mente è quella di me bambino, intento ad osservare un piccolo insetto che si muoveva fra i fili d’erba. In quel momento tutta la mia attenzione era concentrata su quell’esperienza, il tempo non esisteva, e nessun altro pensiero trovava posto nella mia mente, lasciandomi proprio in uno stato di calma concentrata. Ma cos’è cambiato in quel bambino, per farlo diventare un adulto che fatica molto di più a trovare quello stato? C’è quasi una dicotomia fra la meditazione per cercarlo e lo sforzo per ottenerlo, e infatti la successiva sottolineatura afferma che

la pazienza apre porte che lo sforzo trova sbarrate

Non solo ci sforziamo troppo, ma il concetto stesso di calma concentrata non è più lo stesso che viveva il bambino di allora, ma è mutato con noi, perché

Il nostro conoscere è quasi sempre velato dal filtro di un punto di vista condizionato, e ciò che vediamo come «vero» è in realtà determinato da aspettative, preconcetti, speranze e paure. In definitiva, ciò che determina il sé si frappone tra la consapevolezza e l’ambiente in quanto tale.

Se proviamo a continuare a indagare su noi stessi, chiedendoci qual è la reale differenza fra il bambino e l’adulto, nel vivere ogni esperienza, alla fine la risposta sembra emergere in maniera naturale: all’adulto manca la meraviglia. Non ci stupiamo più delle cose, e non le guardiamo neanche con la curiosità di una volta, sempre troppo presi dalla frenesia e da altro considerato erroneamente più importante.

Quindi non c’è via di uscita? Ovviamente non è così. Come ho già scritto precedentemente, è necessaria una resa. Le narrazioni con cui ci hanno trasmesso il significato di arrendersi, ponevano sempre l’accento sulla sconfitta, ma la resa nel contesto personale è quanto di più lontano da questo.

Arrendersi al flusso dell’essere trasforma un’esperienza statica in puro processo; ci lasciamo andare fino in fondo alla meraviglia. I miei pensieri diventano pensare. Le mie emozioni diventano sentire. L’io diventa semplicemente conoscere.

Quest’ultima sottolineatura si ricollega alla prima di questo passo, riportando l’attenziona sui pensieri e sul pensare. Spero di averti dato gli elementi per distinguere le due cose, al fine di riconoscere che il pensiero influisce il pensare, che a sua volta porta alla consapevolezza della non identificazione con i propri pensieri.

L’oggetto della consapevolezza è il pensiero, ma ci identifichiamo con tale pensiero. Ovverosia, non siamo consapevoli del fatto che stiamo pensando; sembriamo anzi diventare i nostri stessi pensieri. I pensieri ci pensano. In uno stato del genere, non riusciamo a vedere che la comprensione intuitiva o intuizione non può arrivare, se perseguiamo questi pensieri. L’intuizione arriva rilasciando i pensieri concettuali, oppure calandosi nella percezione vissuta nel presente della verità che evidenziano.

Prima di lasciarti, fino al prossimo passo, volevo soffermarmi su queste ultime parole rapite dal libro, dandoti lo spunto per provare a ritrovare la meraviglia del bambino. Durante le tue giornate, quando stai vivendo un’esperienza, qualsiasi essa sia, cerca di viverla senza farti rapire dal flusso dei pensieri. Quante volte quando una persona ci sta parlando, siamo più concentrati sulla risposta che gli daremo invece che su quello che ci sta trasmettendo? Quante volte, mentre guardiamo un film, pensiamo ad altro? Quante volte, durante una riunione al lavoro, siamo più concentrati sulle attività che dovremo fare dopo, sentendoci rubare il tempo che crediamo di non avere? Sono esempi, tutti diversi, in cui i pensieri ci rubano l’attimo presente, dove potremmo trovare la meraviglia, se solo non ci facessimo distrarre dal brusio di fondo che noi stessi generiamo.

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