• Gennaio 2015 •
Dopo aver letto La mente che mente di Osho, quando davanti ai miei occhi è comparso Una risata vi risveglierà, non ho esitato un attimo ad acquistarlo. Anche in questo caso, riscoprendo le sottolineature che avevo fatto, mi immergo nuovamente nel momento della lettura passata, rivista però con lo stato di coscienza presente, che rende più chiari i mutamenti occorsi nel tempo. Nella prima sottolineatura ritrovo:
L’essenziale non è mai ciò in cui credi: l’oggetto resta irrilevante; possiedi semplicemente un cuore che ha fiducia, hai una profonda fiducia nel fatto che noi tutti apparteniamo a questa esistenza.
Leggendo la prima parte la mia mente vola immediatamente a “L’essenziale è invisibile agli occhi”, dal libro Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, ma se quest’ultimo afferma che è il cuore che “vede”, a dispetto degli occhi, qui Osho non lascia spazio a quello che è costruito dalla nostra mente o su cui il nostro cuore ripone fiducia, compresa la nostra esistenza, poiché “immaginata” da noi stessi. In questa immaginazione che possiamo confondere con la creazione, se accettiamo per un momento che il concetto di illusione generata da noi si sostituisca a quello che comunemente chiamiamo realtà, possiamo creare il giusto contento per la successiva sottolineatura:
Ciò che tu puoi creare non può essere più grande di te.
Quando lessi questa frase, pensai subito che essendo “piccolo”, non avrei mai potuto creare niente di “grande”, ma mi resi conto con il passare del tempo che questo approccio era completamente sbagliato. (Quasi) Tutti ci identifichiamo attraverso il nostro corpo (impermanente), la nostra mente (impermanente) o forse più di tutto con il nostro ego (ovviamente impermanente anch’esso). Quest’ultimo rappresenta una costruzione della nostra mente, creata strato dopo strato da tutto ciò che è stata la nostra vita fino a questo momento, nella quale ci illudiamo risieda la nostra rappresentazione verso noi stessi, ma soprattutto verso gli altri. Se rimaniamo imprigionati in questa dimensione, che può essere piccola, ma spesso è sovradimensionata dalla nostra esigenza di sentirci unici (e migliori degli altri), ricadiamo nel vincolo imposto dall’affermazione di Osho. Ma se la nostra “dimensione” non fosse questo? Se i confini, primo fra tutti quello che delimita il nostro corpo da tutto quello in cui è immerso, fossero dovuti alla nostra mente, che non ha altri mezzi oltre ai pochi sensi di cui siamo dotati, per poter farsi un’idea (limitata) di cosa realmente siamo? Se questi confini non esistessero, quale sarebbe la nostra grandezza? Probabilmente se, come vi ho suggerito anche nei passi precedenti, almeno momentaneamente provaste a considerare ragionamenti al di fuori degli schemi mentali dettati dai vostri condizionamenti, giungereste alla conclusione che non c’è una dimensione massima, se non quella che rappresenta il tutto. Cosa sareste quindi in grado di creare?
La mente può solo esistere o nel passato o nel futuro, non le è possibile esistere nel presente.
Proviamo a spiegare meglio questo concetto. Quando ripenso (anche solo scriverlo rende già ovvia la cosa) a un’esperienza già vissuta, questo ovviamente avviene nella mia mente, considerato il fatto che l’esperienza è già accaduta nel passato. Analogamente, se ipotizzo una situazione che avverrà nel futuro, questa ancora non è accaduta, se non nella mia mente. Proviamo ora ad avvicinare sempre più questi due ipotetici istanti nel passato e nel futuro all’istante presente, fino a che non ci troviamo esattamente (intendo con la piena consapevolezza) nel qui-e-ora. In questa condizione la mente svanisce. Se ci provi, riuscirai sicuramente a raggiungere questa condizione, magari per meno di un secondo prima che la mente riprenda vita nel passato o nel futuro, ma ti basterà per cogliere quello che Osho voleva esprimere. Se le cose non sono chiare, la prossima sottolineatura ci porta a un’ulteriore presa di coscienza:
Noi non capiamo ciò che viene detto; capiamo ciò che siamo in grado di comprendere. Non capiamo quello che vediamo, ma solo quello che siamo in grado di vedere.
Per ogni cosa abbiamo un livello di comprensione, quindi non necessariamente tutto dev’essere limpido. Proviamo piuttosto a immaginare le informazioni che ci giungono come delle vibrazioni che, anche se non ne cogliamo l’armonia complessiva, riverberano nelle nostre corde. Rimaniamo quindi ricettivi, con il nostro livello di comprensione, che in ogni momento è quello più adatto per procedere nel proprio cammino, vivendo ogni situazione come ci suggerisce la sottolineatura seguente:
La trascendenza implica che tu non eviti nulla, né il positivo né il negativo. Vivi il positivo e la sua totalità e vivi il negativo e la sua totalità, con una qualità nuova: cioè la qualità di un testimone. Vivi totalmente ma, al tempo stesso, resti silenzioso, attento e presente, consapevole. Sai che la felicità ti circonda, ma non sei quella felicità; sai che l’infelicità ti circonda, ma non sei quell’infelicità. Sai che è giorno, ma tu non sei il giorno; sai che è notte, ma tu non sei la notte. Sai che adesso sei vivo, ma tu non sei la vita; poi, quando morirai, saprai di non essere la morte.
Come già scrivevo in Libera la mente, tutto va vissuto senza cercare di aggrapparsi alle emozioni che riteniamo positive ed evitare quelle che temiamo negative. Qui Osho aggiunge però un concetto importante: noi non siamo quelle emozioni. Suggerisce di esserne testimone, anche se il più delle volte somigliamo di più a chi è aggrappato a un tronco su di un fiume vorticoso. Le ultime due frasi di questa sottolineatura aprono la via per degli approfondimenti su un tema che molte persone evitano preferibilmente di discutere: quello della morte. Nel distacco suggerito da Osho, rientra anche quello relativo alla morte, rimanendo testimoni, quando accadrà, senza diventare quell’evento. Non ho mai avuto paura della morte, e questo probabilmente mi ha aiutato a considerare l’argomento da diversi punti di vista, senza il timore di non volerne approfondire alcuni aspetti. Ritorneremo nei prossimi passi su questo tema, ma con queste letture ricordo che iniziai a considerare quell’attimo in maniera profondamente differente, e una visione differente della morte comporta necessariamente un modo diverso di considerare la vita.
In questi percorsi di conoscenza, la prossima sottolineatura sembra quasi un invito a “vivere” piuttosto che “studiare”
Se vuoi veramente conoscere, colui che conosce dovrà inevitabilmente coinvolgersi in ciò che viene conosciuto.
e soprattutto abbandonare le proprie convinzioni, considerato che
Se non ti liberi dai credo, non potrai liberarti dai dubbi. È credere che genera il dubbio.
Sembra quasi un approccio scientifico. Se credo a qualcosa, necessariamente dev’esserci qualcos’altro che non riesco a spiegarmi, altrimenti non servirebbe credere, ma si conoscerebbe quella cosa, quindi in definitiva i dubbi nascono appena cerchiamo una spiegazione che sostituisca il credo originale. Se elimino ciò in cui credo, crollano le strutture del dubbio, e ci sono due modi per farlo: fare esperienza personale di una specifica conoscenza (non sempre così semplice) oppure eliminare le proprie credenze ed essere aperti a quella conoscenza.
L’ultima sottolineatura (per un attimo mi torna in mente l’esatto momento in cui lessi queste parole per la prima volta), come alla prima lettura e ora in questo momento, mi fa riflettere:
Tollerare qualcuno è un segno di intolleranza.
Fino ad allora non avevo mai pensato che, effettivamente, pensare di essere in qualche modo al di sopra di colui che veniva tollerato, era un assoluto segno di intolleranza. Questa è stata solo una delle prese di coscienza del mio modo di pormi con gli altri, facendomi scoprire che le persone che meno tolleravo erano quelle che in qualche modo portavano alla luce un aspetto da migliorare del mio carattere, in una sorta di specchio che voleva mostrarmi dove lavorare su me stesso.
Puro silenzio
L’ultima pagina del libro, dove trovo il mio unico segnalibro, condensa in poche righe l’idea di una trasformazione radicale. Osho comincia con il dire che “la gente è sovraccarica di concetti diversi” e che “pensare è una funzione dell’ego” che ci rende quindi tutti diversi. Veniamo incitati al non pensiero, per divenire una “nonmente” dove “le differenze scompaiono… sei puro silenzio”. Lo scomparire come individuo singolo ci porta a divenire parte di un tutto “come infinite onde dello stesso oceano” e conoscere quell’oceano “significa conoscere la verità”.
Vorrei tornare su di un concetto già espresso, ma importante da ripetere. Non dovete accettare parole come quelle appena tracciate come un nuovo credo che, come abbiamo visto, porta solo dubbi. Non ha senso nemmeno marchiarle come idiozie new age, dando ragione alla nostra mente che cerca di mantenere vivi i suoi schemi e quindi, in definitiva, se stessa. Non importa se queste parole sono lontane da noi, non importa cosa capiamo di quello che c’è scritto; quello che conta è lasciarsi la possibilità di aprirsi verso nuovi stati del sé, non necessariamente quelli descritti da Osho.
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